Catania al 24%, Palermo al 49% e Messina al 48%: questi alcuni degli impietosi dati forniti da Legambiente sulla capacità di depurazione delle acque delle città siciliane nel 2014. Un problema enorme che il governo italiano si trova a dover affrontare, ancora una volta in uno stato d’urgenza, per evitare di incorrere nella sanzione da un miliardo dell’Unione Europea che inciderebbe in Sicilia per 185 milioni. Tutto questo perché L’Italia ha già ignorato due volte le condanne della Corte di giustizia europea per il mancato rispetto delle regole per il trattamento delle acque reflue urbane, introdotte con una direttiva Comunitaria del 21 maggio 1991, ed ora si ritrova una procedura di infrazione comunitaria pendente.
Solitamente è una questione di risorse, che scarseggiano, ma non è questo il caso. Nel 2012, infatti, il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) stanziò ben un miliardo e 160 milioni per 96 opere agli impianti di depurazione dei Comuni siciliani che sarebbero dovute essere quanto meno avviate entro l’anno. Eppure il governo nazionale ha appurato pochi mesi fa che solo una decina delle opere programmate erano cantierabili per una spesa ferma a circa 24 milioni.
Perché questi ritardi? La struttura d’emergenza approntata dal premier Matteo Renzi sembra aver appurato che la colpa risiede nell’abnorme burocrazia, negli infiniti ricorsi per gli appalti, e nelle procedure di impatto ambientale lente e complesse. Oltre alle questioni amministrative si devono purtroppo annoverare gli affari illegali delle criminalità organizzata. È il caso del depuratore di Agrigento costato 2.5 milioni di euro, e poi completamente abbandonato e mai entrato in funzione.
Non solo la Sicilia però affronta questa drammatica situazione. Mauro Grassi, responsabile della struttura di missione di Palazzo Chigi #italiasicura contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche, intervenuto a febbraio alla presentazione del primo rapporto ufficiale della sua struttura ha parlato di un quadro “non confortante” in tutto il territorio nazionale.
Secondo Grassi “mediamente sono necessari 5 anni e 6 mesi per realizzare un investimento pubblico nel settore idrico, ai quali si aggiungono altri anni, oltre 3, per le lungaggini burocratiche legate all’iter per il finanziamento, da quando si decide di finanziare l’opera a quando inizia la progettazione”.
La prima soluzione prospettata è quella dell’avvicinamento delle tariffe idriche italiane a quelle della media europea, così da poter rilanciare i necessari investimenti. Grassi ha quindi prospettato un percorso che oltre alla riorganizzazione della governance del settore, includa la necessità di affidare il servizio a gestori industriali capaci di garantire qualità del servizio ed economie di scala nel rispetto dell’importanza della risorsa acqua.
La notizia su Il Giornale di Sicilia