L’Italia sta facendo da apripista in Europa nel fenomeno del reshoring: il processo di rilocalizzazione, totale o parziale, di linee produttive manifatturiere verso il paese di origine (back-reshoring) o in paesi più vicini rispetto a quelli dove già la produzione era stata delocalizzata (near-reshoring). L’edizione 2016 dell’analisi «Il reshoring manifatturiero» realizzata dal Gruppo di ricerca Uni-Club MoRe Reshoring, di recente aggiornamento, riporta 121 casi in cui le imprese italiane hanno deciso di far rientrare in patria la loro produzione o di avvicinarla a partire dai primi anni 2000, a fronte di un dato complessivo di 730 decisioni di reshoring nei maggiori paesi industrializzati. Da un punto di vista geografico e considerando congiuntamente le decisioni di back reshoring e near reshoring, il fenomeno riguarda principalmente le grandi regioni del Nord Italia che rappresentano quasi il 79% delle evidenze raccolte, a seguire il Centro (16%) e le regioni del Sud (5%). In particolare la sola area del Triveneto rappresenta circa il 35% delle decisioni nel campione; un dato fortemente correlato ai processi di delocalizzazione produttiva avvenuti negli scorsi decenni verso l’ Europa dell’Est, la Cina e i Balcani.
La delocalizzazione internazionale ha ridisegnato la geografia della produzione industriale con ricadute sui territori di partenza, le più evidenti a scapito del mercato del lavoro e del peso dell’industria manifatturiera nella creazione del valore aggiunto. In anni in cui la congiuntura economica ha messo a dura prova il settore, una parziale inversione di questo fenomeno è un’opportunità da cogliere: il reshoring può partecipare alla ricostruzione di un tessuto produttivo indebolito, contribuendo a riassorbire gli esuberi delle aziende e agevolare i rientri in fabbrica dei lavoratori.
Nel caso italiano la tendenza al reshoring è nata spontaneamente per rispondere a esigenze di mercato e non a seguito di uno stimolo derivante da politiche pubbliche, come accaduto ad esempio negli USA, in Francia e nel Regno Unito. Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, la necessità di contenere i costi non è tra le prime cause che hanno indotto le decisioni di reshoring delle imprese italiane: tra i primi dieci motivi per il rimpatrio si trovano, nell’ordine, l’effetto “made in” positivo del paese di origine, la possibilità di offrire un miglior servizio al cliente e la ricerca di qualità più elevata mentre, solo dopo , la crisi e la necessità di contenere i costi logistici che comunque incidono non poco sui margini operativi.
L’Italia sembra quindi riscoprire la sua vocazione manifatturiera prendendo atto che non di rado i benefici economici attesi dalla delocalizzazione delle filiere produttive sono inferiori rispetto al premio che i consumatori sono disposti a riconoscere per produzioni “made in”. D’altra parte secondo il “Global Manufacturing Competitiveness Index” elaborato da Deloitte, la competitività del manifatturiero italiano migliora: nel 2016 l’Italia si colloca al 28 esimo posto, salendo di quattro posizioni rispetto all’ edizione del 2013. Tuttavia, bisogna stare attenti ai principali driver della competitività del settore: talenti, competitività di costo e produttività, impatto delle politiche pubbliche sul contesto; perché le proiezioni dell’indice al 2020 prevedono un nuovo peggioramento.