Il Nimby? Un fenomeno superato

Opinione

21-12-2015     * Giovanni GALGANO, direttore Public Affairs Advisors

Negli ultimi anni abbiamo assistito, in Italia e meno platealmente negli altri Paesi occidentali, ad una crescita esponenziale delle proteste – più o meno spontanee – di cittadini e di organizzazioni contro progetti di nuove opere o infrastrutture, in quasi tutti i settori industriali che hanno un impatto ambientale, che sia certo o asserito. Quello che colpisce, oggi, è la frequenza di questi eventi, il loro carattere permanente e le connessioni che presentano l’uno con l’altro, in uno scambio continuo di slogan, passaparola, sinergie operative.

Assistiamo a situazioni di contestazione generalizzate e diffuse su tutto il territorio nazionale che prendono di mira la realizzazione delle iniziative più diverse: dalle nuove autostrade alle centrali geotermiche, dagli impianti eolici ai termovalorizzatori, dai progetti di ricerca di idrocarburi alla produzione di energia da biogas o biomassa, e così via.

Non darò qui (né intenderò darlo mai) un elemento valoriale né tantomeno politico alla protesta o alla situazione intrinseca di contestazione: nulla vieta che l’opposizione a questa o quella iniziativa industriale o infrastrutturale possa essere legittima, solida o addirittura sacrosanta.

La mia riflessione si basa invece sul fenomeno dal punto di vista della comunicazione e della relativa percezione, in particolare quella che si consolida in Rete, e che oggi è certamente decisiva per il successo di qualsivoglia intrapresa (e per il suo affossamento).

Gli esperti di sociologia e di informazione hanno già da molto tempo codificato la fenomenologia della protesta su cui accendiamo i fari in questo studio: il fenomeno NIMBY (acronimo dell’espressione inglese Not In My BackYard, ossia non nel mio giardino) riassume l’atteggiamento di chi contesta la realizzazione di un intervento che modifica lo status quo del territorio in cui si vive, e che dice: “Fatelo pure, ma non qui, non vicino a casa mia. Andate da un’altra parte”.

Ormai un’ampia letteratura si dedica all’argomento, ma non è questa la sede per sviscerare il fenomeno, tanto più che il concetto stesso di NIMBY appare – a mio parere –  oggi superato sia dal punto di vista sociologico che politico, essendosi trasformato in qualcosa di più solido e pervicace, che attiene al tutto e non più alla parte. In altre parole l’opposizione è sempre più olistica, e forse non prevede nemmeno più un giardino da preservare ma ha come bersaglio l’intero giardino. Si sta sempre più contestando un modello di sviluppo, di industria e di economia.

Molto spesso gli episodi di contestazione nascono da una mancanza di comunicazione e di un corretto processo partecipativo delle comunità interessate dal “nuovo progetto”. A questo si aggiunge talvolta, e riteniamo che ne sia una conseguenza diretta, la strumentalizzazione da parte di alcuni soggetti che, basandosi sulla scarsa conoscenza specifica da parte dei cittadini e degli esponenti della Pubblica Amministrazione (non tutti siamo ingegneri, geologi o esperti ambientali), diffondono informazioni errate o parziali per tornaconti di consenso personale, per convinzione ideologica (legittima, ci mancherebbe) o semplicemente per opposto o diverso interesse economico nello scacchiere locale o nazionale.

Le cause della conflittualità territoriale sono pertanto molteplici e intrecciate tra loro: mancanza di un processo partecipativo strutturato; coinvolgimento tardivo e poco credibile dei soggetti sociali, spesso in risposta alle sollecitazioni dei media e con studi costi-benefici di taglio riparatorio, quando non di parte; propensione a vedere i rischi ambientali più grandi di quelli reali. Il denominatore della conflittualità è comunque sempre – o nella maggioranza dei casi – quello che vede il prevalere di scelte imposte e rispondenti solo all’ingegneria specifica all’opera, senza che siano tenute in debito conto le sensibilità e le aspettative della popolazione e di talune categorie economiche (es. turismo, agricoltura, ecc.).

Dal momento che non esiste in Italia un percorso che normi la partecipazione dei cittadini nell’iter autorizzativo come avviene invece in altri Paesi europei, diverrebbe molto importante per le pubbliche amministrazioni acquisire e applicare una serie di nozioni a proposito dei processi partecipativi, in quanto determinanti per condividere con il proprio territorio informazioni e contenuti in merito al progetto con cui la comunità si deve confrontare.

L’obiettivo sarebbe – dovrebbe essere – quello di poter analizzare concretamente quanto venga proposto ed evitare di lasciarsi sfuggire opportunità in grado di creare valore e occupazione per il proprio territorio.

Gli studiosi della materia (e la nostra pratica di osservatori professionali di fenomeni di questo tipo) ci dicono oggi due cose: la paralisi che attanaglia il Paese si deve fondamentalmente alla voglia dei cittadini di essere ascoltati e di influire sulle scelte del loro territorio, opportunità che però non viene incanalata in un sistema di dialogo integrato e regolamentato; ma soprattutto ci dice che il fenomeno si è fortemente politicizzato, e che la protesta viene non solo cavalcata, ma spesso generata e guidata a fini elettorali e di consenso (o per generare ed alimentare un movimento politico di protesta extra parlamentare), basandosi per lo più su una scarsa o approssimativa conoscenza tecnica e scientifica.

A parte qualche caso “illuminato”, i numerosi episodi che si sono osservati nel tempo evidenziano come la Pubblica Amministrazione locale – nella sua doppia componente politica e amministrativa – non abbia spesso contezza dei possibili percorsi adatti a informare e coinvolgere i diversi stakeholder per affrontare consapevolmente una decisione sui nuovi progetti che insistono sul loro territorio.

Si osserva spesso, e lo diciamo con rammarico, una carenza di capacità decisionale da parte degli enti locali (ma anche nazionali) che, di fronte a scelte importanti e spesso contrastate o dibattute a livello territoriale, decidono di non decidere, rinviando sine die atti amministrativi, convenzioni, atti formali in conferenze di servizi, ecc.

Spesso l’istituzione locale abdica al proprio ruolo di guida del territorio e non permette il formarsi di una decisione “Centro-Periferia” che sia condivisa, anche quando impopolare: del resto, una classe dirigente compiuta dovrebbe saper prendere anche decisioni non facili, rinunciando a perseguire il consenso breve, per guardare al futuro.

* Public Affairs Advisors, agenzia di Public Affairs, Lobbying e Comunicazione, che opera in particolare nei settori dell’energia, dell’ambiente e delle infrastrutture.

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