Il Sistema idrico è in crisi: infrastrutture datate e tariffe troppo basse. I numeri del Blue Book 2017. ITALIA



    

sistema_idricoIl 31 gennaio scorso, a Roma, è stato presentato il Blue Book 2017, un esaustivo studio sul settore idrico promosso da Utilitalia e realizzato dalla fondazione Utilitatis, con il contributo scientifico di Cassa Depositi e Prestiti. Utilitalia, che rappresenta il 76% delle aziende che operano nel servizio pubblico dell’acqua, ha voluto così analizzare 54 gestori che forniscono il bene più prezioso sul pianeta a 31 milioni di abitanti di tutta la Penisola. Perché i numeri sono sempre il miglior punto di partenza da cui iniziare a ragionare anche se, come in questo caso, la tentazione di guardare altrove è forte visti i pessimi risultati del Bel Paese. Infatti, il primo dato che fa una certa impressione è l’obsolescenza delle nostre infrastrutture idriche, che risalgono ad oltre 30 anni fa per il 60% della rete, e fino al 70% se si considerano i centri urbani più estesi. La percentuale delle reti con più di 50 anni si attesta attorno al 25%, mentre nei grandi agglomerati si raggiungono addirittura picchi del 40%. Numeri sconcertanti. Una rete vecchia è sinonimo di perdite di acqua più ingenti rispetto agli sprechi “fisiologici” del sistema e infatti non stupisce che circa la metà dell’acqua che scorre negli acquedotti del Centro-Sud non raggiunge i nostri rubinetti. Ma secondo la sempre attuale “questione meridionale” il Nord sembra andare “meglio” e perde solo il 26%. Anche il Ministro dell’Ambiente Galletti ha commentato il Blue Book, senza meravigliarsi troppo della situazione critica del sistema italiano dell’acqua: “le carenze della rete idrica e del sistema di depurazione in Italia sono drammaticamente note da decenni – così il Ministro – ed è il motivo per cui stiamo lavorando a tutto campo per affrontare questo nodo sistemico del nostro Paese, che ne condiziona la competitività”. Già, il capitolo dei rimedi e delle possibili soluzioni.

Nello studio di Utilitalia si ritiene che si dovrebbe mettere mano alle tariffe, con una politica “full cost recovery”, che in parole povere significa alzare il prezzo dell’acqua adeguandolo a quello dei Paesi più sviluppati, perché la differenza è oggettivamente troppa se in Germania (Berlino) si pagano 6 dollari al metro cubo e in Italia, a Roma, solo 1 dollaro e 35 centesimi (siamo secondi dopo Atene). Anche l’Autorità per l’Energia e il sistema idrico sostiene da tempo che occorre alzare il prezzo se si vuole intervenire a livello strutturale, ma il ritocco all’in su delle tariffe non basta perché all’Italia occorrono investimenti per oltre 25 miliardi di euro nei prossimi 5 anni, cifra che si potrebbe raggiungere con hydrobond (titoli obbligazionari vincolati al finanziamento di piani di investimento), titoli di efficienza idrica e fondi sia nazionali sia locali. Ma anche su questo punto segniamo il passo, e Galletti si spinge a sostenere che volendo i soldi ci sarebbero pure, e se non si vedono è colpa delle Regioni che non sono svelte a spenderli, come si è verificato per il Fondo di Sviluppo e Coesione che si sta erodendo perché le varie autorizzazioni regionali per avviare i progetti di risanamento degli enti locali tardano ad arrivare. Altra nota dolente è la questione della depurazione delle acque reflue, per la quale l’Italia è stata sanzionata dall’Unione europea: 11 cittadini su 100 non usufruiscono del servizio, in particolare al Sud e nelle isole.

Insomma, sull’acqua c’è ancora molto da fare e anche la gestione pubblica deve recitare il mea culpa perché non si è stati in grado, dopo il referendum del 2011, di maturare un approccio strutturale, veramente sistemico, come dimostra un altro dato del Blue Book: su 10 milioni di abitanti ci sono 2.098 gestori, uno ogni 4.700 abitanti.

L’articolo su Il Fatto Quotidiano

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